sabato 23 agosto 2014

Carpe diem

Non c'è figlio che non sia mio figlio
Nè ferita di cui non sento il dolore
Non c'è terra che non sia la mia terra
E non c'è vita che non meriti amore
Hanno scritto che ti chiami Laura.
Io ti chiedo scusa, Laura, se non riesco a staccare gli occhi dalla foto dei tuoi bambini,
che i giornali hanno diffuso.
La loro privacy non è più tutelata.
Non sono più soggetti di diritto.
Solo soggetti di amore, di dolore, di nostalgia feroce.

Un po' me ne vergogno, lo ammetto.
Ho sempre detestato la morbosità che si appiccica intorno ai fatti di cronaca nera.
Quasi tutti i fatti di cronaca sono tristi e angoscianti.
Ma alcune notizie sbucano all'improvviso da un titolo, ti colpiscono come un pugno e poi ti restano attanagliati in gola.
Quei nomi di sconosciuti diventano all'improvviso familiari, il loro volto un'icona.

Avevo otto anni quando l'Italia si fermò per Alfredino Rampi, ma ricordo benissimo ogni istante di quell'attesa spasmodica e assolutamente "social": lo yogurt con il cucchiaino, la mano scivolosa del vigile del fuoco, il Presidente Pertini. Io ero in campeggio, al lago, e nelle verande delle roulotte chi aveva una piccola tv portatile accoglieva capannelli di persone col fiato sospeso. E poi quel senso incredulo di smarrimento, di dolore sordo. Poteva essere mio fratello, potevo essere io. Perché?

Quando a pochi metri da casa mia venne ritrovato il corpo del piccolo Cristian Lorandi, 10 anni, strozzato col fil di ferro e abbandonato nei boschi, avevo tredici anni.
I miei genitori stavano per partire per una vacanza e ci avrebbero lasciato con i nonni, e ricordo le raccomandazioni ossessive di mia mamma, le telefonate terroristiche della sua amica Jarka. All'improvviso qualsiasi individuo si avvicinasse a noi bambini era un potenziale mostro.
Ero già mamma quando rapirono e trucidarono orrendamente Tommaso Onofri, 17 mesi, coetaneo allora di mio figlio.
Rimasi assai turbata da quel caso così come da quello del papà che si tuffò dal quarto piano, sempre a Brescia, dopo aver buttato i suoi piccoli. Eppure, tutti questi casi (e tanti altri) erano estremi, improbabili, eccezionali. Dopo un pò ti scrolli di dosso l'orrore, e torni a pensare alla tua vita.

Ma Matteo e Greta, nella foto, sembrano felici, con il vestito della festa, i capelli pettinati.
Greta sorride, con lo sguardo luminoso di chi ha davanti a sé un albero di Natale o la torta dei suoi 5 anni.
Matteo la abbraccia protettivo, affettuoso, con una grande dolcezza fraterna.
Non conoscevo i tuoi bambini, Laura, ma hanno le stesse espressioni dei miei bambini, dei loro amici.
Quella foto potrebbe uscire da uno dei miei album.

Davanti a loro, da qualche parte nascosta dietro alla foto che immortala un momento felice,
devi esserci tu, mamma Laura.
Tu che hai avuto il pancione più o meno nello stesso periodo in cui l'avevo io.
Tu che sicuramente hai una casa piena di giochi, libri, ricordi.
Forse i compiti delle vacanze in un angolo, il kit dell'asilo già pronto.
I loro vestiti e le loro lenzuola ancora impregnati del loro odore.
Tu che adesso sei una mamma senza figli ed è talmente contro natura che non esiste una parola per definirti: non vedova, non orfana, come si fa a spiegare cosa è rimasto di te?
Quello che ti è accaduto è la più grande crudeltà che l'essere vivente possa concepire.

Io non li conoscevo i tuoi bambini, ma non ho dubbi sul fatto che senza di loro, e senza il loro futuro, il mondo farà ancora più schifo.
Un mondo in cui i bambini muoiono e noi non sappiamo proteggerli fa schifo.

E quello che ti è accaduto può accadere a me, a chiunque.
Domani, fra un mese, in qualsiasi momento.
E' un attimo: un incidente, una malattia.
Un albero che cade nel posto sbagliato.
Un guidatore che si distrae.

Io ti chiedo scusa, Laura, se, dopo mesi, sento il bisogno di scrivere proprio ora.
Se oso immedesimarmi in te tanto da sentire addosso una forte tristezza, io che non ti conosco, che non posso nemmeno immaginare.
Io che nemmeno capisco come potrei sopravvivere nelle tue condizioni. Scusa.

Questa sera avrei dovuto uscire, ma a causa di un lieve malessere, sono rimasta a casa.
Un film sul divano, tutti e quattro, la copertina.
Li ho stretti, li ho annusati, ho riso con loro.
Ho sentito chiaro e forte il richiamo del "Carpe Diem".
"Carpe Diem", da sempre un concetto astratto per me, sempre così impegnata a catalogare il passato e a programmare il futuro.

Ma ogni tanto ci vuole un pugno in faccia per ricordarmelo.
Che basta un niente per perdere tutto.